Sveglio.
Dentro la schiena sentivo lo
schianto di una roccia su una vetrata.
Saranno state le 4:30 di
notte, il telefono era sotto il cuscino con il 4% di batteria. Avevo inviato
dei messaggi assurdi solo qualche ora prima, due dolcissimi a una
semisconosciuta ed un altro perverso a quella stronza della mia ex.
Mi alzai dal letto,
il pavimento era talmente
caldo da far pensare che la pelle della pianta dei piedi si sarebbe appiccicata
e staccata rimanendo li, come un’impronta.
Andai verso il bagno per pisciare.
Lungo il corridoio colpii un quadro che oscillò e, frusciando sul muro, produsse
un suono del tutto simile a quello di una serpe tra le sterpaglie.
Ebbi paura. Ho il terrore
dei serpenti e ne avevo appena sognati una dozzina mentre si dimenavano e mi
cingevano le caviglie.
Rabbrividii e pisciai.
Avevo la bocca impastata e
mi sentivo ubriaco, anche se, la notte prima, avevo bevuto giusto un bicchiere
di vino rosso.
Non dormivo più, era quello
il vero motivo di questa mia stanchezza cronica.
Era una sensazione orribile.
Al momento della sveglia, mentre ero in giro a lavoro e, comunque, fino alle
sette della sera, ero come intontito, ovattato. Poi mi stappavo e tornavo in
forze sino al crollo a notte fonda.
Non dormivo quasi più e non
avevo mai del tutto sonno.
Altre tre settimane ed il
mio contratto da postino sarebbe finito e con lui, logicamente, i soldi
dell’affitto della mia casetta dei sogni.
Mi piaceva un sacco quel lavoro,
lo facevo da 10 mesi. Girare con lo scooter per case di sconosciuti e, per di
più, in una zona di campagna come questa, era in fin dei conti rilassante e
leggero.
Certo non l’avrei voluto
fare per tutta la vita ma un altro anno così lo avrei ripetuto volentieri.
A parte tutto il resto,
s’intende.
Avevo finalmente potuto
sloggiare da casa dei miei e me ne stavo per conto mio in questo piccolo ma
grazioso fienile rimesso. Stavo li col mio computer, la mia chitarra (che non
sapevo suonare), le mie idee e con i miei sogni d’artista.
Infilai il sotto del pigiama
e decisi di uscire a respirare l’aria delle 5 la mattina. Era domenica e volevo
viverla con tutti i tipi di luce quella giornata.
Scesi lungo il vialetto di
ghiaia che faceva un rumore splendido sotto i miei passi. Passai vicino alla
mia Fiat e la accarezzai come fosse il mio cane.
Camminavo un po’ a zig zag
senza sapere dove di preciso volessi andare. Non mi interessava in effetti.
Quell’aria fresca, quasi
fredda, era un elisir per i miei bronchi rocciosi e la mia decisione di uscire,
anziché cimentarmi in una dormita di stenti sino a mezzogiorno, era stata
giusta.
Mentre scendevo verso il
paese, mi ero improvvisamente dato quella destinazione, capitò una di quelle
cose che sogni poco prima di addormentarti: una turista olandese, sola, giovane
e bella che si è persa.
Mi vide ed iniziò ad
avvicinarsi. In quei quindici secondi che ci separavano dovevo fare un esame
rapido e preciso del mio inglese.
Ok, tutto al right, A sgana
wei.
Ero pronto.
Faccio per pronunciare la
prima parola e.. sorpresa delle sorprese era italiana come me.
“Hell..c..ciao!”
“Ciao, buongiorno”
“Ahah, scusami! Ero già
partito con l’inglese, se così si può chiamare il mio, ero sicuro fossi una
turista straniera!”
Ero completamente impazzito,
come sempre. Parlavo velocissimo e anziché mostrarmi calmo, superiore e
signorile sembravo un venditore di pesce del mercato centrale.
Mi ero anche dimenticato che
avevo indosso i pantaloni del pigiama con gli orsetti che si inchiappettano,
regalo del mio amico Carlo prima che mi trasferissi, me lo ricordò lei che ci
posò lo sguardo sopra un po’ sbigottita. Non vide fori nelle mie braccia dunque
si rassicurò:
“..Si.. me lo dicono spesso che non sembro affatto italiana”
Mi ricomposi con le spalle,
misi le mani sui fianchi e risposi:
“Vero. Cosa ci fai, se posso
saperlo, in questo paesino dimenticato da dio e per di più alle 5 di mattina?”
Lei sorrise e vidi i suoi
denti bianchissimi, perfetti e sinceri.
Fu in quel momento che capii
che era una sognatrice come me.
“Puoi benissimo darmi della
pazza, della deviata mentale se vuoi, ma ieri notte, era l’una o poco più,
proprio non riuscivo a dormire; sai, “una di quelle notti”... Dunque ho lanciato
una freccetta sull’enorme carta dell’Italia che ho appesa dietro la porta di
camera, cercando di colpire una zona fattibile, ed è uscito questo tuo paese
dimenticato da dio. Ho preso le sigarette, una bottiglia d’acqua, 2 pacchetti
di biscotti e sono partita. Conosci la sensazione..?… guidare.. la notte..
l’estate.. i Creedence Clearwater Revival.. e sono arrivata dove la sorte mi ha
portato, alle 5 la mattina senza neanche una sosta. Per fare questo tipo di
cazzate ci vuole più a dirlo che a farlo alla fine, è proprio vero”
La ascoltavo e già immaginavo
noi due ubriachi a baciarsi, a ridere, a mangiare un panino in mezzo a un bosco
di castagni.
Riattaccai a parlare, ero
già innamorato di quella creatura:
“Se davvero è andata così,
più che pazza, ti considero una persona normale o, male che vada, sono pazzo
anche io e finalmente mi va bene così.
Di cosa avevi bisogno?
Volevi delle indicazioni? ”
Portò l’indice sulla bocca e
mi disse :
“No, ho bisogno di un
favore: il mio telefono è completamente scarico e ho bisogno di fare una
telefonata, sai.. mia madre è come me mentre mio padre potrebbe essere
preoccupato!”
“Povero babbo ! Certo che
dobbiamo chiamarlo! C’è un piccolissimo problema, ho il telefonino a casa, sto
qui vicinissimo, andiamo su con la tua macchina, telefoni e poi, se vuoi, ti
trovo una mappa e ti faccio tirare un altro paio di freccette, tanto per
proseguire il tuo viaggio”
“Ok!”
Mi disse sorridendo.
Aveva parcheggiato appena
dietro la curva. La sua macchina, gialla come una pallina da tennis, era piena
zeppa di libri, fogli scritti e pacchetti di sigarette vuoti. Dentro c’era un
flebile odore di lavanda.
Amavo lei e la sua auto.
Girò le chiavi, si accese lo
stereo e partì a tutto volume “Lookin’ out my back door” dei Creedence. Già: la
canzone del grande Lebowski.
Per la prima volta ero
sveglio come non lo ero da mesi e, sempre per la prima volta dopo molto tempo,
ero felice di vivere e di poter sperare che le piccole fantasie ogni tanto si
avverano.
Arrivammo a casa mia, vidi
che le piacque molto il posto.
Entrai velocissimo e mi
precipitai in bagno. Ero certo di non aver tirato lo sciacquone e che il
lavandino fosse blu dal dentifricio. Non volevo passare da cafone.
Uscii in un attimo e lei era
ancora sulla soglia che osservava il totale disordine ma, allo stesso tempo,
ammirava il gusto che avevo avuto nel disordinare tutte quelle cose.
Fu in quell’esatto istante
che riuscii a metterla a fuoco, a guardarla tutta.
Era alta, i piedi grandi, le
gambe magre e drittissime chiuse in un jeans morbido, liso e aderente. Sopra
aveva una maglietta bianca enorme, con lo scollo a barca che mostrava le sue
scapole deliziose. Sotto indossava una canottiera nera ancora più lunga della
maglina che le copriva la patta dei pantaloni. Non era truccata e si notava che
era un po’ stanca dal viaggio. In quel viso dalla pelle morbida dominavano due
occhi azzurri rotondi, grandi e bellissimi, incorniciati da delle ciglia lunghissime
e delle sopracciglia grandi, spesse e marcate. I capelli color grano
accompagnavano con la loro incredibile lunghezza la sinuosità e la perfezione
delle sue braccia sino alle mani.
Era bellissima ed era li, in
piedi sulla soglia di casa mia.
Sospirai.
Presi il telefono che si
trovava ancora sotto il cuscino, era spento, completamente scarico. Lo misi in
carica e nel frattempo preparai il caffè. Accesi la musica al computer, scelsi
Nina Simone, non potevo sbagliare, almeno con la scelta della musica.
Mi fece qualche
apprezzamento sui libri che possedevo e mi prese un po’ in giro per il poster
di Bukowski.
Bevemmo il caffè in
silenzio, lo prendeva amaro anche lei.
Amavo lei, la sua macchina
gialla e il caffè amaro che le si posava sulle labbra.
Staccai il telefonino dal
cavo e glielo prestai.
Era ancora prestissimo e, da
brava figlia, preferì inviare un sms piuttosto che far sobbalzare dal letto il
povero babbo, di domenica poi.
Scrisse il messaggio,
lunghissimo, lo rilesse, lo inviò e lo cancellò dalla memoria.
Scosse le spalle sorridendo,
si diresse verso la porta e mi ringraziò in modo buffo e irriverente :
“Grazie mille delle
gentilezze che mi avete concesso, adesso lascio il vostro feudo per proseguire
ancora un po’ il mio viaggio e, non appena sarà giusto, rientrerò nella mia
terra natìa”
Avevo capito benissimo che
se ne voleva andare, lo stava facendo in modo simpatico, rispettoso e netto.
Non cercava me.
Forse non cercava nessuno o
niente in particolare.
Feci un inchino e la salutai
così:
“Stare ai suoi servigi è
stato per me gratificante e delizioso, darle questo addio è logorante e
maledettamente ruvido.
Addio”
mi guardò negli occhi e
rispose :
“Se mi troverai, se ci
riuscirai, ti prometto il mio caffè amaro, una tazza o poche gocce, quanto ne
gradirai”
Sembrava che avesse letto
nel mio pensiero. Sembrava che mentre osservavo, pochi minuti prima, quelle
poche gocce di caffè che si posavano sulle sue labbra e le desideravo sulle
mia, lei lo sapesse, se ne fosse accorta.
Mi avvicinai per capire
meglio e chiuse la porta.
Accese la sua macchina
gialla e partì.
Non sapevo praticamente
niente di lei.
Alzai il volume, mi buttai a
pancia in giù sul letto e mi disperai ripensando a quanto ero un coglione, un
tonto.
Sferrai un pugno sul cuscino
dalla rabbia poi, d’improvviso, feci un grosso respiro, mi alzai e bevendo un
bicchiere d’acqua ghiacciato mi misi a pensare.
“Mi ha detto di essere
partita appena dopo l’una di notte, mettiamo le una e venti, è arrivata qui
alle cinque, mi ha detto di non aver fatto nessuna sosta, ho letto la provincia
sulla targa della sua auto, l’accento in effetti corrisponde, entrando in
macchina ho notato il porta tagliando dell’assicurazione, rosso, con un nome
buffo..composto da “auto” e qualche “z”..autozzi, autouzzi, automazzi,
autozizzi, aut..era rosso quel porta tagliandino…auto zitti…AUTOZATTI!”
Andai subito a cercare e la
notizia fu sorprendente : quel concessionario esisteva, era in un paesino di
5000 abitanti nella provincia che riportava la targa ed era anche plausibile il
tempo che lei aveva impiegato per arrivare sin qua.
La macchina era sporca,
c’erano molti aghi di pino incastrati sotto i tergicristalli dunque doveva
parcheggiarla fuori, per strada, non in garage. Bastava girare tutto il paesino
e trovare quella macchina gialla. Il giorno dopo sarei andato a lavoro ma
martedì avrei preso ferie, sarei partito e l’avrei trovata. Ero felice, di
nuovo, dopo la rabbia e la disperazione. La speranza sotterrava tutto il resto.
Il lunedì finì presto tra il
lavoro, le mie ricerche, i miei itinerari e le mappe.
Martedì, ore 15:30,
partenza.
Ghiaia, stradina, strada, superstrada,
autostrada, superstrada, strada, stradina.
Vedo il cartello del paese e
mi emoziono. Il viaggio è schioccato veloce come un lampo.
Giro per tutto il paese
lentamente, in macchina, inforcando gli occhiali per vederci meglio.
Sembro uno della CIA.
Incappo in un viale pieno di
pini, giro a sinistra verso dei giardinetti costeggiati da delle villette verdi.
Inchiodo.
Sono le 20:00 e vedo la
macchina gialla, è la sua.
Il cuore impazzisce,
parcheggio urtando violentemente contro il marciapiede. Tolgo gli occhiali,
scendo e respiro.
Risalgo.
Avevo deciso di indossare di
nuovo il pigiama con gli orsetti che si inchiappettano, non so di preciso il perché.
Passarono quaranta minuti e
la porta di casa sua si aprì.
Era lei.
La vidi uscire e scendere i
pochi gradini che la portavano al cancellino. Io mi trovavo dall’altro lato
della strada. Scesi velocemente dalla macchina e mi diressi verso le piccole
strisce pedonali tra il suo marciapiede e i giardinetti. Era senso unico e
doveva per forza andare dritto per quei 15 metri. Appena accese i fari e partì,
io feci per attraversare facendomi trovare nel mezzo di strada esattamente
mentre arrivava.
Rallentò. Io mi fermai.
Abbagliò, io mi voltai.
Spense il motore, scese, la
guardai, sorrisi.
Aveva appena preso il caffè.
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